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Panchina-panchinae

 

Sono tante le panchine.

La civiltà è una panchina

di forma, colore e odore

sempre diverso.

Alcune sono così scomode

che viene da pensare

che nessuno sappia

cosa serve una schiena

e dormire in relazione ad essa.

Panchine architettonicamente

ineccepibili,

ma chissà perchè le meglio

sono quelle messe peggio:

quattro assacce di legno

meglio se bagnato di fresco,

molliccio, tenero, accogliente,

capace di farti innamorare

della libertà individuale.

Sono molte le panchine.

La stazione Firenze Rifredi

è tutta una panchina,

quella di Roma

(come del resto, Roma stessa)

è un martirio paleocristiano

di gente all’inpiedi

con la rabbia tra i denti

per la voglia di riposo

posticipata dal millennio scorso.

Ma com’è l’amore

sulle panchine ad ore;

e il Mar Mediterraneo

panchina dell’EurAfrica

orgoglio dell’Egiziano?

Ce ne vogliono di capitomboli

per vincere panchine mobili,

ogni Autunno è una lotteria

alla panchina meno fredda,

a quella vicino al portico

che fa da barreria

ad ogni inutile sera

passata sotto osservazione

di panchine in minigonne.

Sì, sono poche le panchine:

-Non torno a casa stasera.

Non ci torno più…

finchè ci stai tu-,

e giù whisky in allegria

con Farfallucci, il Nero, LuciaLandini,

Paradoz, il primo De Gregori,

giocando a fare pernacchie

con kazoo-anti divieto

prendendo alle spalle tale Alberto B.

che la poesia la metterebbe

nel suo salottino,

magari sul comodino,

incorniciata in un quadrettino,

appuntata come un bacino

sulla gobba di sua nonna

che certo applaude il nulla infinito

del suo scrivere abortito.

-Buongiorno panchina-viatico,

non mi maledire per questo omaggio,

abbozzato in luogo imprecisato,

magari bar Golfo Aranci,

sicuramente fradicio di baci

ricevuti indistintamente

dal Mare Adriatico

tavolo-compasso

di ogni viaggio perso-. (1556)

 

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